domenica 15 maggio 2011

Differenza, Incontro, Dialogo. Tre categorie transdisciplinari per l’educazione interculturale.


Franco Cambi

1. Sul dispositivo intercultura’.

Oggi si parla molto di “multiculturalismo” e della sua crisi. Crisi perché tiene fermo un pluralismo non organico, non di confronto, ma – alla fine – di separazione. Crisi ideale e strategica al tempo stesso, che mostra i limiti di quel modello, soprattutto anglosassone, di convivenza di culture (Inghilterra, USA, Canada etc.). Esso risulta fondato sul tollerare più che sul costruire insieme e rifugge dal “meticciato” e, pertanto, ricrea gerarchie e sanziona differenze, in quanto non attiva comunicazione tra le culture stesse. Si è detto: tale crisi del multiculturalismo si presenta sotto due aspetti, entrambi incapaci di fare-integrazione. Quello che assimila emarginando (vedi Francia). Quello che difende le differenze culturali ma non crea collaborazione e riconoscimento (USA e non solo). Touraine lo ha ripetuto anche di recente: bisogna battere un’altra strada, di «uguaglianza nella differenza» e di combinazione di unità e pluralismo. Infatti da più parti a questa ottica solo liberale si contrappone, ormai, un’ottica di confronto/dialogo/collaborazione, pur sapendo che tale frontiera è ardua e complessa. E molto. Carica di resistenze, di arretramenti, di ansie perfino e poi di conflitti. Ma è l’unica via di incontro reale e costruttivo tra le etnie/culture che ci sta di fronte. Ed è la via dell’inter-cultura che si colloca oltre la tolleranza e reclama al centro proprio l’incontro e il dialogo. E’ in questi termini che la comunicazione fra le culture ci sta davanti come vero Compito Epocale. Sì, proprio. E ci sta davanti sia de jure sia de facto 1.
Quanto al “fatto” è la Globalizzazione già in marcia che produce un Mondo più unificato e più interconnesso, che miscela etnie e culture, modelli di vita e forme di psicologia, e quindi reclama scambi e scambi intenzionali, capaci di produrre comunicazione e interazione. I movimenti di gruppi, la rottura delle frontiere, le coabitazioni che la Globalizzazione mette in gioco reclamano un ripensamento plurale e sintetico al tempo stesso dell’“abitare un luogo”, come pure fa emergere regole comuni dentro una nuova forma-di-vita in cui tutte le etnie, culture etc. sono irretite. Questo “fatto” apre, già di per sè, delle possibilità. Ma da tutelare, da far valere, da render comuni.
Per il de jure è l’Orizzonte Culturale nuovo che va sottolineato Un orizzonte che è in cammino già dal terreno squisitamente teorico, dopo l’avvento del Pluralismo, dell’Interpretazione, della Decostruzione quali paradigmi di una cultura che si legge a dimensione planetaria e che mette al centro la categoria dell’Acculturazione, come dominante e regolativa. Categoria complessa e dinamica, carica anch’ essa di tensioni. Infatti l’«acculturazione», a ogni livello, miscela, crea transiti, ibrida. E lo fa o implicitamente o esplicitamente. Nel primo caso usa anche mezzi di dominio, di integrazione forzata, ma che si rivelano sempre come porosi. Nel secondo si legge lo stemma dell’acculturazione e lo si fa regola, lo si gestisce (almeno il più possibile) e più consapevolmente.
Da questa complessa congiuntura d’epoca emerge e si impone il bisogno di pensare con precisione cos’è l’Intercultura, come la si fa e come la si fa agire sul piano cognitivo, etico e sociale. E tale strada è soprattutto pedagogica, poiché sono il da-fare e il costruire-insieme che ci stanno di fronte, a livello e teorico e pratico. Cioè tener fermo un Progetto (axiologico, sociale, operativo) e una Strategia/Tattica (di realizzazione, scandita in luoghi, in azioni, in un fascio di tecniche). E di entrambi i fronti la pedagogia è il contenitore più esplicito. Ancora: e di fatto e di diritto. Si tratta, anche, di costruire un modello culturale che fin qui è stato messo spesso ai margini, perfino aspramente criticato e de-legittimato. Almeno fino a ieri. Con la vittoria di Colonialismi, di Totalitarismi, di Nazionalismi. Tutti legati a monoculture, a atti di dominio, a inglobazioni verticali delle differenze (o, spesso, alla loro destructio, macro o micro che fosse; anzi e macro e micro: legittimandosi sia nelle politiche sia nelle mentalità). Ma anche oggi: con l’azione di Integralismi e Fondamentalismi (etnici, religiosi, politici) capaci di produrre ideologie di conflitto e logiche di separazione e di ghettizzazione, cariche di pregiudizi e di rischi sociali al tempo stesso.
Allora: oggettivamente parlando (e, ancora una volta, per via di fatto e per via di diritto) il nostro è il Tempo della Costruzione di una Cultura Planetaria, che si tratta di accompagnare da ora attraverso la valorizzazione di un Metodo: quello appunto dell’Inter-cultura. Metodo che aprirà prospettive nuove tra le culture, darà corpo a nuove acculturazioni, farà emergere métissage e ricombinazioni fra i modelli in corso, che per ora ci restano imponderabili. Anche se effetti efficaci del métissage sono in atto e con forza. Il capitalismo e la democrazia, da un lato. I diritti umani, dall’altro. E poi il dialogo interreligioso. I diritti delle donne a quelli dell’infanzia. Il diritto ai consumi e all’istruzione. E si pensi solo all’evoluzione della cosiddetta Cindia, ma anche alle rivolte in corso nel Maghreb, alla crescita economico-sociale del Brasile, alle stesse tensioni per diritti, crescita democratica, sviluppo economico che attraversano l’Africa Nera. Possiamo dire che un modello culturale post-occidentale è in cammino, irrorato da principi maturati proprio in Occidente, ma ormai ri-costruito e integrato da un dialogo planetario, che fa riemergere valori ultimi (come la pace, come il dialogo, come i diritti umani) e li pone come regolativi dell’incontro inter-culturale.
Sì, l’intercultura ha al centro un’axiologia (e un’axiologia pedagogica) fatta di fini-ultimi, regolativi, utopici perfino. Ma forti e netti. Essa mira a una ri-costruzione dell’ anthropos. Come ebbe a riconoscere padre Balducci, guardando a quell’“uomo planetario” che è in votis e in cammino. Dotato di coscienza plurale, post-etnica, incardinato sulla reciprocità e la collaborazione. E sempre aperta e riaperta. Sì, certo: tutto ciò produce anche resistenze, come già detto. Fughe all’indietro. Arroccamenti. Negazioni dell’incontro e del dialogo. Seguendo così le logiche degli integralismi. Che sono tanti. Che frenano il processo in corso tra etnie, culture, popoli: e processi di convivenza e di integrazione. Ma che – come si vede ormai con chiarezza – non riescono affatto a fermarlo. Allora pensare l’Inter-cultura e pensarla pedagogicamente (come modello da realizzare, e in teoria e in pratica) è Compito Primario del nostro tempo. Di un tempo, poi, che sta sempre più proiettato verso quel suo futuro che ne agita il presente e reclama di essere portato alla luce. Con difficoltà? Con sofferenza? Anche, ma non necessariamente, se la gestazione del nuovo viene collegata a un dialogo cultura /politica che è soprattutto ancora pedagogico: progettuale e attivo-pratico al tempo stesso, di cui il politico stesso deve farsi interprete e gestore.
L’intercultura è un compito e una speranza. E’ bisogno reale e obiettivo possibile. Ma da ben possedere nel suo “dispositivo”. En théorie e en pratique come detto di sopra. Attraverso una teoria-e-pratica che è pedagogica “per struttura”, anche quando si dice per via antropologica o filosofica o politica, muovendo ora dalle culture, ora invece dalla riflessività critico-radicale, ora anche dalla neo-polis che dobbiamo realizzare in un tempo in cui la storia-mondo è sempre più l’orizzonte del nostro essere-nella-storia. Che è pedagogica poiché progetta e attiva formazione per gestire la trasformazione. E formazione di menti, di etiche, di cittadinanze. Di soggetti, di gruppi, di comunità.

2. Tre categorie-chiave.

Questo modello di Cultura Planetaria in Cammino, di cui non conosciamo il profilo finale, ma di cui conosciamo bene, invece, la logica animatrice e costruttiva, va teorizzato e praticato al punto di intersezione (e lineare e dialettico) di Tre Categorie-Chiave, su cui la cultura attuale ha con forza e perspicacia posto l’accento, come categorie-generative di un Salto di Civiltà. La Differenza. L’Incontro. Il Dialogo. Tre categorie di lunga storia, anche contraddittoria, ma che nella contemporaneità e sociale e culturale e antropologica (e perfino politica) si sono imposte come Dispositivi di Orientamento. E pertanto da chiarire, organizzare, sviluppare e poi diffondere come principi operativi. Anche Dispositivi da tutelare. E criticamente. Per evitare un loro fraintendimento o per via di retoricizzazione o per via di delega a un tempo ulteriore. No. Sono categorie dell’Oggi e che oggi vanno possedute e fatte agire. Da subito. Allora il primo compito (pedagogico-teorico) è possederle à part entière: nella loro “pienezza” e anche nella loro complessità. Poi dovranno essere poste “alla prova”, in varie condizioni, in diverse aree, con varie (= articolate) strategie. Ma prima si tratta di definirle nel loro stemma organico e compiuto, quale ci è imposto dalla riflessione attuale e proprio a livello transdisciplinare pensando tali categorie come veri “collettori” del presente anche a livello di riflessione culturale. Ma di questo tra poco. Per ora fermiamoci sulle tre categorie: fissandone- (per sommi capi)- strutture, funzioni, attualità.
La Differenza. La differenza come pluralismo e come diversità, posta come dato e come valore è una categoria-chiave del Novecento. E scientifica e riflessiva: si pensi alla biologia della diversità e si pensi ai richiami cognitivi e ontologici alla differenza. Un testo come quello di Derrida dedicato appunto alla differenza (La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971) ne decanta ad un tempo l’attualità e la specificità. Differenza è lì continua differenziazione e disseminazione di forme, che rompono l’organicità del sistema e producono ri-articolazioni e innovazioni costanti. La logica della differenza si lega alla proliferazione e propulsione di forme nuove e si delinea come regolata dal principio del «rizoma» (Deleuze). E’ un modello a cui deve ispirarsi la nostra (postmoderna e postmetafisica) visione del mondo, la nostra conoscenza (che deve oltrepassare e il fondamento e il sistema e il metodo), la costruzione stessa del nostro io (che è, in sé, multiplo, conflittuale, squilibrato, anche se proiettato sul dar vita a equilibri, ma sempre più mobili e precari), la realizzazione del nostro comunicare (carico di resistenze, deviazioni, sottintesi: mai lineare e sempre polimorfo e magmatico). La differenza si è imposta come forma del reale e del pensiero e nei saperi e nella riflessione, declinandosi come categoria-guida nella cultura attuale. Dotata già di una sua storia significativa: da Nietzsche a Heidegger, a Derrida, a Deleuze e oltre (a Lyotard, a Nancy etc.). Una storia che ne legge lo stemma e la funzione in vari ambiti e che ce la consegna come categoria-compito. Da pensare e ripensare. Da applicare anche alle varie forme e della cultura e della stessa vita personale e sociale. Un contributo che è stato essenziale nella storia del Novecento e che ne ha cambiato i profili di teoreticità, di comunicazione, di eticità etc. Perfino di esteticità. E, come già accennato, di soggettività. Una vera “rivoluzione” che è ancora in marcia. E che trova nell’intercultura un suo campo di approfondimento e di applicazione. Di ostensione e di diffusione.
L’Incontro. Stare nel pluralismo e legittimarlo è anche favorire occasioni di incontro e di scambio fra diversi. E necessariamente. Solo che l’incontro può essere di vari tipi, fino allo scontro, al rifiuto, alla persecuzione. E ciò accade se si mette la sordina alla differenza e come dato e come valore e la si coglie, invece, come deviazione, contrasto etc. partendo – per via antropologica, cognitiva, anche riflessiva (nel pensiero metafisico, che è pensiero del Fondamento) – dal primato assoluto dell’Uno e del Modello. La realtà, invece, è plurale, e, così, anche il pensiero deve esserlo. E lo è, di diritto, se si lega alla differenza. Ma lo è, di fatto, se si dispone sul fronte dell’incontro e dell’incontro come apertura. Che significa confronto col diverso e confronto reciproco, che nel suo processo di incontro produce scambi, prima ancora riconoscimenti, poi un tessuto di condivisione e di dialogo e attraverso il dialogo, che proprio l’incontrarsi viene a postulare. Un tema quello dell’incontro che attraversa la riflessione antropologica (e esistenziale-personale e culturale) contemporanea. Che si sviluppa in analisi storiche di “occasioni mancate” (come ha fatto Todorov nel suo La conquista dell’America, del 1984). In analisi di conflitti etnico-religiosi e di classe (come ha fatto Emmanuel Le Roi Ladurie ne Il carnevale di Romans, nel 1981). In teorizzazioni di artes atte a sviluppare incontro tra diversi, ora sociologiche, ora educative, ora anche etno-psicologiche, tutte ben rappresentabili in ricerche di ieri (= passato prossimo) e di oggi.
Il Dialogo. E il dialogo stesso deve definirsi in senso antropologico ed etico-politico, oltrepassando ogni sua astrazione e/o retoricizzazione. Pertanto va autenticamente definito e mostrato anche nelle sue aporie, tensioni, scarti possibili, come pure nelle sue potenzialità e nelle sue uscite. Tra le aporie stanno gli ostacoli linguistici, mentali, etc. che permangono dentro il dialogo. E qui una pratica di coscientizzazione può essere precisa ed efficace. Poi stanno le formalizzazioni del dialogo stesso, che si fa apparenza di fusione di orizzonti e niente affatto metamorfosi delle coscienze e delle mentalità. Ma il dialogo – vigilato, regolato, potenziato secondo il suo statuto di dia-logos e di comunicazione che apre a un’esperienza di fare-comunità – è potente: apre orientamenti, mette in atto una pratica di riconoscimenti, fa vedere la differenza nella sua radice, e, quindi, la partecipa. Ce l’accomuna. Pertanto il dialogo è potente: se aperto, senza reticenze, in cammino verso lo scambio, proiettato sul valore-del-meticciamento,che è tale proprio perché dà corpo a una comunità più larga (se pure anch’essa insidiata da rischi: di gerarchie, di domini, etc. rimuovibili però e ancora attraverso il dialogo), disposta oltre i pregiudizi e attiva per l’integrazione costruttiva (e non passiva). E di tale dialogo, denso e potente, oggi conosciamo metodi, modelli, risultati. Possediamo le tecniche operative tra i soggetti, nei gruppi, dentro le comunità. Da Gandhi a Capitini potremmo dire. Ma passando per i richiami socratici di un Dolci, su su fino a quel comunicare connesso alla “coscientizzazione” (alla Freire) che crea comunità e comunità costruita sul comunicare (e non su a priori: di fede, di etnia, di credenza). Lì si costruisce quell’etica della solidarietà che realizza una comunità e una comunità aperta e aperta a far riconoscere via via obiettivi universali come regolatori comuni dello stare-nel-dialogo (quali la pace o quei diritti umani sopra indicati).
Siamo davanti a tre Categorie-chiave integrate. Categorie-chiave per l’inter-cultura, che è sfida e bisogno ad un tempo, oggi. Categorie di alto, altissimo profilo e storico e antropologico e culturale. Di cui proprio le scienze umane e la stessa filosofia sono state artefici e custodi. Ed è, allora, con quei saperi che tali categorie si descrivono e si affinano. Ed è tale apertura interdisciplinare che le nutre e le consegna alla pedagogia, la quale si fa collettore teorico e pratico di questa ricerca anche articolata e talvolta perfino dispersiva, ma finissima e cruciale. E cruciale per definire/possedere/applicare tali categorie, appunto, altrettanto cruciali. E farle vivere nel nostro tempo, inquietissimo e aperto; e che deve pensarsi/volersi nell’apertura.

3. Il loro statuto inter/trans-disciplinare.

E’ proprio nell’incrocio organico di psicologia, sociologia, antropologia e filosofia che tali categorie si costruiscono e si fissano nel loro stemma e nel loro valore. E la pedagogia – sapere di saperi e “collettore” teorico e pratico di essi, e quindi punto di sintesi organico-produttiva, e a sua volta critica (poiché si tratta non di “sommare” ma di interpretare e riorientare e applicare) – svolge un ruolo e di sintesi e di disvelamento al tempo stesso. Sintesi come ripresa trasversale e organica, appunto. Disvelamento come riconoscimento e come proiezione attiva, epocalmente connotata, ma – ancora – criticamente fondata, e proprio nel disporre alla sintesi.
L’antropologia culturale è, forse, la disciplina veramente chiave che ci guida a ri-pensare le tre categorie. Ci offre definizioni, metodi, pratiche. Ci nutre di uno sguardo di pluralismo che incrocia sì un sano “relativismo”, ma lì non si ferma. Procede verso l’incontro e il dialogo, di cui possiede molte chiavi appunto: dalla comprensione all’acculturazione, tanto per esemplificare. Così la psicologia e/o la sociologia ci portano dentro realtà plurali (l’io e la società) e ce le mostrano nella loro dialettica interna, ma fissando in tale dialettica un compito omeostatico (pur sempre provvisorio) e che nasce solo dall’accordo delle diversità. Implicando il dialogo (tra io e sé; tra gruppi sociali) come gesto e pratica di apertura verso l’altro e come riconoscimento dell’altro da me come altro me, in quanto variante della comune appartenenza antropica. La filosofia poi rilancia le tre categorie in modo radicale e riflessivo: le mostra nel congegno e nella funzione e etica e politica e cognitiva. Da Derrida a Lévinas, al nostro Calogero, nel discorso filosofico tali categorie-princìpi si affinano e si esaltano e si impongono nella loro piena epocalità e si dispongono ad essere, insieme, diagnostiche e terapeutiche. La pedagogia poi si colloca al crocevia di questi saperi e pensa con loro e oltre loro il proprio modello: formativo. Ovvero modellato attivamente/produttivamente sull’io, sulla società, sulla cultura e pensato come regola e come valore, da tener fermo e rendere vivo al tempo stesso. E la pedagogia lo sta facendo attivando le due ottiche (teorica e pratica) e intersecandole secondo un modello maturo: quello, appunto, interculturale. Di cui la pedagogia, più di altre discipline, è stata l’ispiratrice e la custode. Anche qui da noi. E forse qui più che altrove. Il che è significativo in relazione al ruolo proiettivo/produttivo che ha il sapere pedagogico. E proprio perché si colloca su una frontiera plurale e organicamente orientata nello stesso tempo. E che guarda dal presente al futuro. E che collega pensiero e azione. Come già detto di sopra.
Qui da noi, in Italia (più che altrove: a parte il caso-Germania, che ha avuto sviluppi paralleli rispetto all’Italia, che ha anche influito sulla stessa riflessione pedagogica italiana; e si pensi a Portera, che ha alla base anche una conoscenza del pensiero/azione tedesco in questo campo e nel quale nutre le sue strategie e teoriche e pratiche, ma anche a Borrelli per la sua analisi del postmoderno o a formare e la sua pedagogia della Bildung), l’intercultura già alla metà degli anni Novanta era ben riconosciuta nel suo identikit e nel suo valore/funzione e nella sua attualità proiettiva. Il pensiero di Franca Pinto Minerva è stato su questo piano esemplare. Come pure le riflessioni di altri pedagogisti fino a Cettina Sirna, forse un po’ anche al sottoscritto, ad Antonio Genovese e altri ancora.

4. Prospettive conclusive.

La pedagogia integra i saperi della Differenza/Incontro/Dialogo e li integra criticamente e dialetticamente, dando corpo a un dispositivo organico e teorico e pratico, fissandosi come sapere-chiave dell’Inter-cultura. Come il suo sapere – forse – più specifico e consapevole. Poiché ne gestisce l’integrazione critico-dialettica. Infatti, in pedagogia, la differenza reclama l’incontro (poiché si lega a soggetti, a vissuti, a situazioni) e lo reclama per permanere e per superarsi senza produrre scontri o rifiuti (i quali fanno arretrare in relazione al rispetto delle differenze e al loro riconoscimento come valore) e nell’incontro esige il dialogo (e sempre per il faccia-a-faccia che impone, trattando soggetti-persone coinvolte in un processo di formazione, e sociale e individuale). Nella pedagogia le tre categorie si integrano e si saldano. E dinamicamente. Anche problematicamente. Ma si saldano in modo produttivo. Sia sul piano teorico: si rimandano e si sostengono dando sviluppo a uno stemma complesso, sì, ma organico. Come pure su quello pratico: impongono di costruire spazi di riconoscimento e di co-abitazione di differenze e di incontro e di dialogo in cui i tre elementi sono strutturalmente compresenti, sempre, e vi fungono da regolatori, ancora dinamici. Allora la pedagogia integra e regola tali categorie e le coniuga, in tal modo, tra la teoria e la prassi, fissandole proprio sul loro “congegno” dialettico e quindi svolge un ruolo insostituibile e cruciale tra i saperi umani. Per costruire soggetti, culture, società plurali nella comprensione e unitarie nella solidarietà e nel riconoscimento. Una sfida propria del nostro tempo. Per alcuni la sfida, più urgente e carica, ad un tempo, di luci ed ombre. Ergo da ben pensare, tutelare, organizzare.
Ma la pedagogia tratta (fissandone il valore e la corretta gestione) anche l’agenzia di differenza/incontro/dialogo che deve essere tenuta presente come modello: e teorico e operativo. Come struttura esemplare e come luogo d’azione primario. Ed è la scuola. La scuola è comunità di diversi che da virtuale deve farsi reale: deve integrare senza omologare, sempre, e in ogni caso o aspetto; deve far-comunicare nel riconoscimento reciproco; deve creare incontro e attivare dialogo, ed essere capace di relazionare incontro e dialogo anche tra le resistenze e le aporie e, anzi, spesso attraverso di esse. Non solo: la scuola non tratta solo soggetti con appartenenze (diverse) ma li lega insieme per fare-cultura, che è apprendimento, ricerca, sviluppo di creatività, di riflessività, di cura di sé. Allora apre nella cultura il dialogo, inglobando le culture in un gioco tra loro dialettico e costruttivo di intercultura. E poi: nella scuola non c’è gerarchia, anche se il gruppo-classe (o gruppo-scuola) vive le sue dinamiche di gruppo (di esclusione, di gerarchizzazione etc.), ma sempre le vive in metamorfosi e mai legittimate come forme regolative-finali dello store-insieme. Allora, diciamo così, la scuola è l’agenzia giusta (poiché esemplare) per fare-intercultura. Per averne un modello consegnato per ri-crearlo altrove. Dove? Nell’associazionismo, nelle comunità di lavoro (anche il lavoro fa cultura), nei quartieri etc. Scolarizzando la società? No, niente affatto. Ma trasferendo quel modello nei vari habitat, riattivandone proprio la struttura di metodo e di scopo. E anche per questo la pedagogia si dispone proprio al centro stesso dell’Intercultura.

5. Postilla.
Non c’è un rischio, non c’è un condizionamento (e etnico-culturale e ancora etncocentrico) implicito nell’inter-cultura, già nel suo riconoscimento come regola ulteriore dell’Occidente e come necessità epocale da gestire da e in funzione dei modelli proposti dal Mondo più Avanzato? Un rischio ancora di dominio? Un condizionamento ideologico: e di forma – legato al pensare, sull’imporre una regola – e di contenuto- un’idea di pax urbanizzata, sottoposta al vincolo di una ratio universale, ma posta come tale da una “parte” del consorzio umano? Sì, siamo davanti a problemi reali. Anche ulteriormente da criticare: tra intercultura come Ideale e la globalizzazione come Mercato non corre nessun rapporto? Proprio nessuno? E ancora: non è l’Universalismo greco-cristiano-borghese che ancora fa da interprete e da legislatore? E potremmo continuare. L’intercultura può essere letta, anche, o come retorica o come ideologia. Almeno come suoi rischi/condizionamenti immanenti e possibili. E li deve “sciogliere” preliminarmente e proprio per legittimarsi. E lo deve fare con riflessioni di grana fine. Decostruttive di questo ulteriore “pre-giudizio” e interpretative di questa sfida critica interna. Sviluppando una più attenta e approfondita autocomprensione.
Primo: il rischio che un neo-imperialismo “dal volto umano” si celi in questa neo-ideologia della borghesia capitalistica e della sua cultura del dominio. Un imperialismo soft, che pur nella differenza fa co-abitare e dà spazio ai valori del più forte (capace di gestire il dialogo anche perchè si trova a casa propria). Tale rischio è reale. Ma c’è altro, molto altro. C’è una condizione storico-socio-culturale nei paesi avanzati che esige di essere pilotata, risolta e di esserlo secondo giustizia. Di qui l’intercultura come modello e come compito. E il dato è inaggirabile.
Secondo: un rischio di ideologismo culturale diffuso che cavalcando la congiuntura riafferma primati e funzioni-guida. Sì, forse. Ma il messaggio finale è contro “primati” e “guide”: è un messaggio di collaborazione, di intesa, di costruzione-insieme. A parte il fatto (alla fine casuale) legato alla parte del mondo che promuove tale modello e lo pensa come compito.
Terzo: che le categorie di Differenza/Incontro/Dialogo stanno nel DNA di una cultura (quella occidentale) e ci stanno con tensioni e ansie e paure, ma ci stanno. Sono categorie occidentali e da queste si pensa e si organizza il nuovo dell’ inter-cultura. Non è ancora un atto di etnocentrismo? No, se quelle categorie emergono dentro quel mondo e con le sue tradizioni è chiamato a pensarle. Non si pensa, infatti, nel vuoto. Né mentale né linguistico. Certo, ciò impone di leggere e rileggere quelle categorie nella congiuntura nuova: di affinarle in essa, di renderle anche più sofisticate e nuove. Con un lavoro interpretativo e riflessivo costante che poi, di fatto, si sta facendo. E lo si fa con un’ottica strettamente interdisciplinare, che sia capace di radiografare lo stemma teorico e storico di tali categorie. Sottoponendole a un’analisi costante.
Allora i rischi (neoimperialistici, neoretorici, neoideologici etc.) dell’intercultura sono sì reali, ma soprattutto ipotetici. L’iter che essa vive nella cultura/società contemporanea si colloca anche oltre e contro questi rischi, sviluppando un impegno di analisi e di gestione che oltrepassa in modo continuo la linea d’ombra di questi pericoli. Certo è, però, che il Dispositivo-Intercultura e il suo Apparato Categoriale vanno sottoposti sempre ad Analisi Radicale e in senso Teorico, Storico, Strategico. Senza questo punto-di-fuga quei rischi si materializzano e bloccano l’innovazione di quel processo, deprivandolo della sua funzione di Utopia e di Speranza (alla Bloch) come pure di quella di Forza Planetaria (su cui ci richiamava con decisione Ernesto Balducci). E’, allora, su questo complesso e cruciale orizzonte che dobbiamo attestare l’intercultura e lì coltivarla con decisione e con acribia al tempo stesso.



1Si indica qui, in nota, la bibliografia citata nel testo o tenuta presente nel costruirlo. Ovviamente una bibliografia minima e di solo orientamento relativa a un tema ormai sviluppato in tutto il mondo e i contributi sul quale si sono fatti quantitativamente enormi. A.A.V.V., Cultura, culture, dinamiche sociali, educazione interculturale, Palermo, Edizione della Fondazione Nazionale “V. Fazio-Allmayer”, 1997; M. Anolli, La mente multiculturale, Bari, Laterza, 2006; K.-O. Apel, Etica della comunicazione, Milano, Jaca book, 1992; E. Balducci, L’uomo planetario, Fiesole, Edizioni di Cultura della Pace, 1990; U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Roma, Carocci, 2005; E. Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994; E. Bloch, Spirito dell’utopia, Milano, Rizzoli, 20093; M. Borrelli, Postmodernità e fine della ragione, Cosenza, Pellegrini, 2010; G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2003; G. Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, “Iride”, n. 45, (XVIII), Agosto, 2005; G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità. Religione, teologia, politica, Napoli, Guida, 2010; M. Callari Galli, Lo spazio dell’incontro, Roma, Meltemi, 1996; G. Calogero, Filosofia del dialogo, Milano, Ed. di Comunità, 1977; F. Cambi, Intercultura. Fondamenti pedagogici, Roma, Carocci, 2001; F. Cambi, Incontro e dialogo, Roma, Carocci, 2006; A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Feltrinelli, 1967
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